domenica 6 maggio 2012

Canone

Forse prima ero spaventata perché ero convinta di dover affidare la mia vita nelle mani di un altro.
Così hai paura di fare la scelta sbagliata.
A giusta ragione.
Ora non me ne importa più un cazzo.
Non devo affidarla a nessuno.

Sti cazzi.

sabato 25 febbraio 2012

''Luca era gay'', canta Povia.

In tutto ciò che leggo si parla d'amore.
Anche in maniera velata, anche quando non c'entra.

Io ho 25 anni e mi sono innamorata due volte.
O forse tre.
Diciamo due volte e mezza.

Quando penso al passato, al mio essere innamorata in passato, tendo a sminuirmi, a ridicolizzarmi.
Assumo un atteggiamento critico e non riconosco la maternità delle azioni che ho compiuto sotto l'effetto di tutte quelle endorfine.

Da lucida tutto mi sembra estraneo, assurdo, lontano da me.

Anche se lucida non sono mai sul serio, sono solo innamorata di una cosa diversa, presa da un'altra passione che spegne il fuoco del vecchio ardore, che prende a nausearmi.
I miei amori per cose e persone finiscono tutti in nausea, infatti.

Col tempo questo effetto collaterale ho imparato a smorzarlo perché mollo la presa prima dei conati.

Ma prima no.
Mi ingozzavo e poi vomitavo, ovviamente.

Come con le canzoni.
Da piccola ero in fissa con ''Gente come noi'' di Ivana Spagna.
La sentivo duecento volte al giorno.
A ripetizione.
Come quelli che si accendono la sigaretta col mozzicone di quella che hanno ancora in bocca.

Giorno dopo giorno la amavo di meno, ma continuavo.
Per abitudine.
Poi d'improvviso il vomito.

La canzone che amavo si era trasformata nella mia kryptonite.
Un altro ascolto e avrei potuto morire tra quelle note.

Ancora oggi, se una radio melensa la butta fuori, sento una piccola fitta allo stomaco.
Non vomito più, certo, come non fanno più male i vecchi amori.

Mi rimane solo un senso di leggero fastidio che si fa largo tra i ricordi.

Nelle due volte e mezza che mi sono innamorata, una è stata particolarmente destabilizzante.
Ero totalmente persa.
Sembravo più l'adepta di una setta che una ventenne innamorata.

Ero totalmente nelle sue mani, che chiudeva a pugno per stritolarmi.
Faceva male ma io glielo permettevo.

Un male non fisico s'intende, ma non meno doloroso.

Era mezzo inglese, mezzo pazzo, mezzo attore e completamente scapestrato.
Era bugiardo e senza meta e non potevo non innamorarmene.

Siamo stati insieme per un po', poi mi lasciò perché forse ero rimasta incinta.

Così non fu, ma lo scampato pericolo non fu sufficiente a riunirci.
La sconcertante scoperta della mia fertilità si rivelò un peso troppo grande da sopportare per lui.

Rimasi per lunghi mesi innamorata, abbandonata e mestruata.
Con vitali interruzioni mensili del flusso.

Fino a quando decisi che era giunto il momento di riprendermelo.
Nessuno sciolga ciò che coglioneria ha unito.

Così corsi nella città in cui si era trasferito e gli gridai tutto il mio amore.
Sfortuna volle che lui provava lo stesso e ritornammo insieme.
Tre giorni di coccole e smancerie, fino a quando al tavolino di un caffè mi disse d'esser gay.

Ma senza tanti giri di parole, senza star lì a pensare alla forma.
Così.
Con la faccia seria ed indaffarata del veterinario che ti dice che il tuo cane ha la leishmaniosi.
Sarà anche brutto sentirselo dire, immagino, però prima iniziamo le cure più possibilità abbiamo di limitare i danni.

Non so cosa esattamente si aspettò da me in quell'istante.
Io so cosa mi aspettai da lui.
Una frase che non arrivò mai : ''Sto scherzando'' e giù di grosse risate per questa memorabile battuta.

Ero così stordita dalla rivelazione che nemmeno lo lasciai e infatti rimanemmo insieme altri mesi.
Mesi nei quali provavo per lui la stessa attrazione che si prova guardando i batuffoli di polvere nell'angolo della stanza.
Ti fanno un pochetto schifo, ma oramai ci sei anche abituata.

Dopo un po' chiaramente ci lasciammo.
E lui iniziò la sua vita gaia.
Io continuai la mia, cercando di spurgare l'effetto delle droghe che mi aveva inconsapevolmente fatto assumere.
Ancora non riesco ad accettare l'idea che così non fosse.
Escludo la possibilità di assumermi la responsabilità in prima persona per un simile scellerato comportamento.

Lo scorso novembre passeggiavo in Via Torino a Milano.
Erano le 20 e i negozi erano quasi tutti chiusi.
Guardavo annoiata le vetrine perché non avevo voglia di tornare a 'casa'.

Di fronte da Carpisa alzo gli occhi e lui era lì.
Mi ha visto e, incredulo e festoso, mi ha salutata.
Aveva una bambina di pochi mesi in braccio.

Mi abbraccia, lo abbraccio cercando di non far male alla creatura.
Mi guarda e mi dice: ''Sì, è proprio quello che stai pensando!''.
Io in quel momento avevo il vuoto totale in testa, non sarei stata in grado nemmeno di ripetere la tabellina del due figuriamoci decodificare la situazione o capire che cazzo voleva che dicessi.
Così lui mi viene gentilmente incontro come mai aveva fatto in passato.
''Lei, lei è mia figlia. Sono padre ora. E sono anche un marito. Oddio non per la legge ma è come se lo fossi''.

Cioè lui voleva che capissi questo?
Cioè dopo che i social network me lo hanno riportato nella mia rete e mi hanno fatto vedere tutte le relazioni che ha avuto fino a due anni fa con i gay di mezza Europa, Germania in particolare, io avrei dovuto capire questo?!
Cioè io avrei dovuto capire che un gay col cappotto e una bambina in braccio fosse un padre e un quasi marito?
Ringrazio per la fiducia dimostrata alla mia intelligenza ma il binomio gay-bambini per me porta automaticamente alla chiesa, all'oratorio, alla repressione di un istinto vitale che assume così forme patologiche.

Giuro che non avrei mai voluto né creduto di interpretare un ruolo, seppur secondario, nel testo di una canzone di Povia.
So che da piccola ascoltavo Ivana Spagna, ma non me lo merito.





 

domenica 19 febbraio 2012

La tv del dolore

Piace a molti parlare male della televisione, ed alcuni ci credono veramente.
Si fa presto a riconoscerle difetti, molto difficile è, al giorno d'oggi, trovarle dei pregi.

Uno lo ha: zittisce i rancori e manda avanti le famiglie.
Un tempo si diceva si facevano tanti figli perché non c'era la tv.
Ora, questo è lo strumento usato per crescerli.

Non perché li si lascia lì davanti per ore a vedere i cartoni, e le repliche dei cartoni (+1), e le repliche delle repliche dei cartoni (+2).
No, non per quello.
Ma perché la televisione è in alcune famiglie l'unico legante, quello che spegne le liti, addormenta l'astio, culla la rabbia.

Quando è spenta si urla, si litiga, ci si arrabbia, ci si scopre peggiori di quello che pensiamo d'essere.
Quando è accesa si spengono le voci, rimane il suo vociare chiassoso.

Le cedi la parola ma non i pensieri.

Quelli rimangono in te, li ingoi in un gomitolo di spilli che spesso rimane a metà.
Li ingoi tra le lacrime che non scendono, che rimangono dentro a farti pungere il naso.

Le cose non dette non esistono.
Ti rimane l'illusione che tutto vada bene perché di male nulla hai detto.

E' quello il regalo della televisione.

Accetto senza ringraziare.

lunedì 6 febbraio 2012

sòssoddisfazioni

<<Parliamo della Costituzione francese del 1791>>
<<Allò la costituzione francese è chella cosa che non comandava il re da solo tutto lui, ma comandavano nu pò a ciasGuno come hai detto prima tu e pure la gente del popolo poteva fà chello che glie pareva no come a prima che venivano trattati come gli animali e gli preti pure potevano decide caccosa ma sempe meno de prima. E poi ce stavano i sanculotti. aggio finito.>>
<< Mmmm... sta seconda guerra mondiale, ma che po esse mai stata... ce andavo io e glie facevo vedè!>>
<<Coi capelli lunghi eri bona, mo' no.>>

domenica 5 febbraio 2012

Non è mica sempre festa

E' domenica. Ed ho mal di testa.
E non c'è una correlazione tra le due cose.
Tra poco mi prendo un'aspirina.
Perché questo è uno dei mal di testa da aspirina per me e non da novalgina.
Quello da novalgina è localizzato alle tempie e pompa con regolarità quello da aspirina invece è diffuso nella parte bassa della fronte, sulle sopracciglia, ed è indefinito.

Avrò preso freddo ieri sera oppure è colpa degli spifferi che mi entrano dalla finestra.
Un'umidità pazzesca. Pioggia di nevischio e umido.
Ma basta scrivere del gelo di questi giorni perché mi ha veramente annoiato, al pari dei servizi del tg per il mese di agosto: ''Non esporsi al sole nelle ore più calde, che vanno dalle 12 alle 15, e sempre con una protezione uv molto alta. Bere molta acqua e bagnarsi spesso la testa, magari a Piazza di Spagna dove c'è la troupe che riprende. E non sfugge nemmeno la carrellata di piedi deformi dei turisti nordamericani o sudamericani si bagnano nelle fontane. E se sei anziano, vai al centro commerciale dove c'è l'aria condizionata e rimanici 8 ore, senza acquistare nulla però perché la minima non te lo permette.
Né la pensione, né la pressione.''

Questi servizi sono sempre uguali, come quelli sulla mappa dei nei di Luciano Onder.
Sia il servizio, che i nei forse.

Non so esattamente perché sto scrivendo. Né so esattamente cosa sto scrivendo.
Ora ci vorrebbe il colpo di genio da raccontare, l'evento narrativo che muta le cose e le trasforma in interessanti, originali o geniali.
No, non ci sarà.

lunedì 30 gennaio 2012

Ex tunc

Si parlava di sogni intesi come attività onirica.
Ognuno di noi raccontava i più divertenti, i più angoscianti, i più.
La mia amica Flavia non ne aveva uno da raccontare al momento, o forse non voleva.
Così, da psicologa in erba, da sempre preferita al fumo, ci dice:
''Io dei sogni so quello che tutti sanno!''.

Ho l'impressione di non sapere mai la nozione che segue l'introduzione ''quello che tutti sanno''.
Ma questo è solo un mio debole, conseguente al fatto che mi senta sempre sotto esame.
E vale anche al contrario.
Quando qualcuno inizia una frase con ''ti dico una cosa che di sicuro non sai'' e simili, mi viene sempre da sperare di saperla quella cosa lì al solo scopo di smentire l'interlocutore.
Cosa ne sai tu di cosa so o non so io!

Ed è proprio questo mio bisogno di segnare punti sul tabellone immaginario della vita, o delle conversazioni fatte in vita, che mi spingeva in età adolescenziale a dover imparare a tutti costi la definizione del fuorigioco calcistico.
Non perché me ne fottesse realmente qualcosa ma perché a quell'età impressionava i maschi.

Non sono mai riuscita ad impararla sul serio.
A volte scrivevo anche la definizione, rubata da qualche libro o chiesta a mio padre, oramai stremato, e la ripetevo per ore ed ore con gli occhi chiusi e il corpo trasportato da un ipnotico movimento oscillatorio.
Quanto tempo sprecato!
Avrei potuto trascorrerlo a strapparmi le doppie punte come tutte le adolescenti.

Poi crescendo ho smesso di voler impressionare chi voleva che lo facessi con argomenti calcistici.
Da quel momento in poi non ho fatto grandi salti di qualità, a dire il vero.
Aspetto ancora il mio Dulbecco.

Ma ho di sicuro smussato questo infantile approccio competitivo nelle conversazioni, che tra l'altro è tipico di mio padre, con mia madre che pende incantata dalle sue labbra.
Ecco io non volevo pendere, volevo che da me si pendesse.

Ora fortunatamente mi reggo su altri equilibri.
Le conversazioni costruite in due, in tre, in quattro, in quattordici, in quaranta, in cui impari, insegni, smentisci, ti contraddici, confermi, menti, neghi, inventi, vieni zittito, ipotizzi, taci, ascolti, vai oltre, sono le mie preferite.

Ma torniamo ad Effe e a quello che tutti sanno.
Le persone protagoniste dei nostri sogni, o semplicemente gli oggetti, altro non sono che parti di noi.
Io mica lo sapevo!

Quando sogno mia zia ho sempre pensato di sognare mia zia, non la parte stronza e cattiva di me!
Sì, non stravedo per lei.

E di sicuro non lo sa neanche Ilaria che ogni due o tre mesi mi chiama e mi dice: ''Ho sognato che morivi perché una macchina ti travolgeva. Dio come piangevo! Come stai?''

Sto bene, grazie. Ma ho un po' paura ad attraversare la strada, ora.

Alla luce di questa affermazione, sconosciuta solo ad Ilaria e a me, rileggo i miei sogni con tutt'altra interpretazione.
Ho archivi di vecchi sogni da rivedere e ricatalogare.

Sarà un lungo lavoro e assolutamente necessario dato il carattere retroattivo di questa scoperta.

martedì 17 gennaio 2012

Mi ha detto mio cuGGino che da bambino una volta è morto

Maggio per molti è un mese come un altro.
In tantissimi lo trovano anche bellissimo, è il mese delle rose e dell'attesa dell'agognata bella stagione.

Maggio è per me il mese della terra che trema sotto i tuoi piedi e quando si ferma ti porta via una persona a cui vuoi molto bene. Una persona a cui, in sua assenza, ti senti ancora più legata. Un tassello che si rompe in un cerchio che ti ha sempre avvolto, sulla cui esistenza e continuità potevi contare.

Il mio maggio è il mese che dà un senso al verso di De Andrè: '' crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio.'' ma nella mia storia non c'è una guerra, una divisa o più semplicemente una causa per tutto ciò.
C'è solo l'amarezza delle domande che ti continui a porre pur sapendo che non hanno risposta. La fantasia infantile di poter tornare indietro e sistemare tutto, come in uno 'sliding doors' tutto tuo. Perché in fondo credi ancora di essere un eroe con l'intenzione di salvare tutti, di rimediare agli errori, specialmente quelli del tempo.

Forse è perché le tradizioni sono una cosa per famiglie che mio cugino decise, qualche maggio fa, di morire proprio in quel mese.
Peccato o per fortuna per lui, non ci riuscì.

Iniziò tutto con un rantolo notturno che, crescendo di intensità, impediva a mia zia, nella stanza accanto, di dormire.
Si alzò ed andò in camera di suo figlio.
Lo trovò nel suo letto rigido e cianotico, emetteva quel suono roco con una lentezza devastante e comunque troppo lontana dalla comune idea di respirazione.

Arrivò in ospedale in coma, stette molti giorni in rianimazione, giorni lunghi per chi è fuori ed entra in quello stanzone vestito con vestagliette e cuffie verdi.
Giorni che tali non erano per lui, sospeso in un limbo, affidato alle cure e alla sorte, cullato dal buio e dai rumori che, a poco a poco, riprese a sentire.

L'eroina e la cocaina assunte insieme gli avevano quasi fottuto il cuore, i polmoni, ed i reni.
E' quel quasi che lo ha salvato, oltre a quintalate di medicine suppongo.

Tra i parenti iniziò una pantomima che ricorderò a vita.
Gli occhi di alcuni di loro erano sinceramente sconvolti, come a dire: ''Come è possibile che sia successo proprio a noi? Queste sono cose da tv del pomeriggio, non esistono realmente!''.
Altri erano intenti a comunicare che ''sì, sapevano ma non fino a questo punto. Cioè, insomma credevo fosse drogato un po', non proprio tutto!''.
Altri occhi, abitualmente saccenti, ribadivano che ''sapevano sarebbe successo ma non con la dovuta precisione per poter spostare l'appuntamento dall'estetista e questo sì, ci secca abbastanza!''.
Altri invece erano sollevati '' meno male che è successo a tuo figlio e non al mio. Sulla base di un semplice calcolo delle probabilità da questo momento in poi più nessun ragazzo della nostra famiglia andrà in overdose e io potrò considerarmi un buon genitore. Oh, se così non dovesse essere, il prossimo cenone di Natale lo facciamo a San Patrignano e pazienza!''.

Alcune mie zie furono davvero brave nella recita, e non credo stessero improvvisando, penso piuttosto che dietro ci fosse un approfondito studio del copione, con prove ed esercitazioni, per arrivare a livelli sempre più alti.

Ma il premio della critica e la standing ovation va sicuramente a mio cugino più grande.
Un ragazzo oramai uomo, dotato di una grande positività, a molti test antidroga intendo.
Tornò nella sala d'attesa dopo la visita al capezzale del malato brandendo tra le mani il suo cellulare di ultima generazione, la stessa a cui vorrei appartenesse egli stesso, ed iniziò a far circolare l'aggeggio tra i parenti.

Credevo cercasse di attirare l'attenzione con l'enorme capacità di memoria per sms dell'oggetto o lo straordinario numero di megapixel della fotocamera integrata ma come al solito lo sottovalutavo.

Lui stava invece mostrando a tutti le foto appena scattate di mio cugino a petto nudo, sotto un lenzuolo bianco, con una pelle gialla ed un tubo, grande quanto quello dell'aspirapolvere, che gli usciva dalla bocca.

Pronunciava frasi da Fabrizio Corona dei poveri sulla necessità di mostrargliele una volta che avesse abbandonato il coma, sull'esigenza di stamparle e farne poster enormi.
Ho smesso di ascoltarlo prima che iniziasse a parlare della retrospettiva fotografica che era intenzionato a mettere su.

Ho cercato di estraniarmi ancora di più, non provando nemmeno a nascondere il mio sguardo spaesato.

Una settimana dopo, sempre in quel mese di maggio, mio cugino uscì dal coma.
Con il cuore di un ottantenne obeso e fumatore, la faccia ancora più lontana dalla realtà, e i disturbi di chi è in astinenza.

Sembrerebbe una storia di droga a lieto fine.
In realtà non lo è, e non so se esistano o meno.
L'educazione borghese che ho ricevuto mi porta ad essere sfiduciata.
Ma i dati concreti non mi contraddicono.
Mio cugino ha iniziato a frequentare il sert con regolarità, facendo amicizia con il metadone, avvicinandosi ancora, spesso e volentieri,  alla cocaina e all'eroina, spero non di nuovo in combo.
Ha iniziato a rubare i soldi che gli vengono ora negati.
Li ruba in casa e fuori, per essere equo.
Ha iniziato a parlare di comunità, e di un gennaio, nel quale ci entrerà perché 'ora è veramente intenzionato a cambiare'.

Ed io ho capito che gennaio per i drogati è come lunedì per i sovrappeso: un inizio ipotetico.